Il Torneo Aziendale

Quando a giugno dell’anno scorso la Direzione Risorse Umane lanciò la proposta di un torneo calcistico interno, che vedeva contrapporsi le squadre di varie strutture dell’azienda, l’entusiasmo si diffuse rapidamente e le adesioni  fioccarono numerose. Al rientro dalle vacanze estive già si sprecavano gli sfottò e tutti minacciavano di vincere facile, umiliando qualsiasi avversario con almeno quattro gol di scarto.

Il fine ultimo dell’iniziativa, ovvero creare entusiasmo e stimolare le energie, era stato pienamente raggiunto.

A fine settembre venne pubblicato il calendario delle partite ma tra piani ferie, scioperi e riunioni, le contestazioni travolsero il comitato organizzatore, che dovette il giorno stesso ritirare il calendario dalla bacheca per tornare a deliberare.

Onde evitare sospetti di broglio, venne chiamata una società di consulenza esterna, che a seguito di una serie interminabile di sondaggi, auditing e ricerche di mercato, presentò un nuovo calendario e una fattura da far impallidire qualsiasi tesoriere. Ma si sa, il calcio è il calcio: l’amministrazione in quell’occasione pagò senza battere ciglio e vista la cifra sborsata nessuno ebbe più il coraggio di protestare.

Le squadre, alla prima uscita, avevano tutte una loro precisa e distinta personalità.

Il reparto amministrativo aveva schierato i suoi contabili con una serie di magliette sponsorizzate dalla macelleria all’angolo, tutte color rosso sangue e con una inquietante testa equina disegnata sul petto; un po’ granguignolesco, ma non avevano sborsato un solo euro e anzi, si vociferava che qualcuno da qualche tempo mangiasse filetto tre volte a settimana…

Gran colpo d’occhio all’arrivo dei colleghi del marketing: da settimane fingevano di lavorare concentrandosi invece solo sull’evento sportivo. Si sa, l’immagine per loro è tutto e così avevano provveduto ad acquistare una divisa sociale personalizzata con tanto di nomi, numeri e logo dell’azienda. Durante l’intervallo due hostess scandinave diciannovenni vendevano le maglie e altri gadget per beneficenza; naturalmente qualsiasi collega ci avrebbe sputato sopra in mondovisione, ma di fronte al ricatto morale della beneficenza e all’esca della foto con la hostess che veniva poi esposta in bacheca, nessuno ebbe il coraggio di tirarsi indietro e  il merchandising finì per essere un successone.

I venditori indossavano tutti la maglia della nazionale italiana campione del mondo, ma la cosa più invidiata dai colleghi era la tifoseria: i più giovani ed aitanti si presentavano ad ogni partita con un parterre di ragazze sempre diverso. Il minimo comune denominatore erano comunque l’età giovanile e l’avvenenza indiscutibile che faceva sbavare tutti i presenti, in campo e in tribuna.

La squadra degli ex dipendenti infine, era la più “colorata”: avevano magliette di foggia sportiva prodotte verso la fine degli anni ’70, un po’ strette sui fianchi e sulla pancia. Ognuno però esibiva la propria, e così c’era chi si presentava con una maglia del grande Torino, chi con quella del Milan o dell’Inter scolorita su cui si intravedevano ancora il numero dieci e il cognome, assai sbiadito, di Rivera o di Mazzola. Quando i figli dei colleghi chiedevano perché portassero le maglie col nome di un onorevole e di un telecronista sportivo, evitavano di rispondere e si allontanavano, scuotendo la testa e borbottando qualcosa del tipo “Dove andremo a finire…”.

Dopo il primo turno ad eliminazione diretta, il comitato organizzatore si affrettò ad accorciare il tempo delle partite previsto dal regolamento: il resto del torneo si sarebbe giocato in due tempi da 20 minuti, con un intervallo di (almeno) mezz’ora. Un vero successo: il numero dei ricoverati per crisi respiratoria e dei certificati di malattia nei giorni successivi alle partite calò notevolmente e la temuta sospensione del torneo per mancanza di giocatori sani disponibili non ebbe luogo.

Per mesi la produttività e l’efficienza di tutti i reparti calò bruscamente: in azienda si parlava della partita per diversi giorni, con strascichi infiniti di polemiche e accuse. Gli arbitri erano tutti di parte e tendenzialmente cornuti come da tradizione, le discussioni su quel gol mangiato o su quel rigore non assegnato si sprecavano e il toto-torneo diventava ad ogni turno più rovente. Se non ci fossero state le colleghe donne, assai meno infantili, che continuavano a lavorare sospirando e scuotendo la testa, l’azienda probabilmente avrebbe chiuso i battenti.

Alla fine vinse la squadra dei precari, non tanto per qualità tecniche particolari, quanto per il fatto che, data l’età, riuscivano a correre anche durante il secondo tempo, quando gli altri giocatori si trascinavano stancamente lungo il campo, fingendo di cadere o di essersi fatti male quando ciccavano clamorosamente un pallone. Alla cerimonia alzarono la coppa con commozione e con un certo senso di rivalsa verso i colleghi “dipendenti”, che rosicavano parecchio per la mancata vincita ma che in fin dei conti erano felici perché una vittoria da parte di altri reparti avrebbe bruciato molto molto di più.

Naturalmente l’assegnazione della coppa è tuttora sub iudice perché il giorno dopo la finale la squadra dell’ufficio legale presentò ricorso contestando gli arbitraggi e il regolamento, sostenendo che i precari non potevano partecipare in quanto giuridicamente titolari di un contratto di lavoro atipico, non contemplato espressamente dal regolamento del torneo. E’ attesa da un giorno all’altro la sentenza del collegio arbitrale; nel frattempo la direzione generale ha interessato l’ufficio del lavoro e la giunta regionale per le pari opportunità. I sindacati hanno indetto da allora quattro scioperi e due riunioni generali.

A gennaio si riparte con la seconda edizione. Sarà sicuramente un successo.

Be the first to comment

Leave a Reply

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*